Giappone, agosto 2018.
Il Giappone: così lontano da noi sia geograficamente che culturalmente, sembra quasi un altro pianeta. E invece abbiamo molte similitudini: paesaggi mozzafiato (Monte Fuji in primis), tanta storia e tradizioni, ottimo cibo. Inoltre, come noi siamo appassionati di tutto ciò che è di origine nipponica, anche i giapponesi sono appassionati del nostro Bel Paese.
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Appena realizzato che ero per davvero nel paese del Sol Levante ho avuto subito riscontro su ciò che mi aspettavo: ordine, pulizia, efficienza. Tokyo è una grande metropoli, ipertecnologica, ma calda e umida. Sconsigliatissimo andarci in agosto, a meno di non voler bere 5 litri di acqua (o bibite, in questo caso) al giorno. Subito mi innamorai dei Kombini, l’equivalente dei nostri minimarket, in quanto trovai cibo e bevande sconosciuti a noi occidentali. Purtroppo non sono riuscito ad assaggiarli tutti.
Ho apprezzato molto la dualità del Giappone: modernità e storia sono letteralmente ad un passo l’una dall’altra. In pochi minuti di metro si passa dal futuro rappresentato dalla città, al passato rappresentato dai vari templi Shintoisti e Buddhisti.
Tradizioni, usanze ed abitudini così diverse dal nostro modo di pensare e vivere la spiritualità che ne fui conquistato. Posso dire di essermi avvicinato allo Shintoismo, o comunque vorrei saperne di più. Visitando i templi, si sentiva che in quei luoghi girava un’energia diversa. Vieni sopraffatto da un senso di pace, di relax, di calma, che ti viene voglia di sederti e meditare. Anche se non lo hai mai fatto prima in tutta la tua vita. Questo profondo legame con la natura fa ritornare alle origini, quando l’uomo era in armonia con il mondo circostante, e sapeva apprezzare ogni singolo momento di questa esistenza. La semplicità, l’ordine, ma anche l’eleganza e la raffinatezza di come sono strutturati i templi fanno solo ampliare queste sensazioni. Cosa che noi con la nostra tecnologia e progresso stiamo forse un po’ perdendo.
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Tornando in città, invece, il mio cervello andava in tilt. Vedere ragazze e ragazzi indossare il kimono o la divisa scolastica, e i lavoratori giacca e cravatta con l’immancabile 24ore mi facevano credere che fossi finito in un anime. Proprio come al famoso incrocio di Shibuya, ci misi un po’ a convincermi che tutto ciò non era solo in 2D nato dalla matita di qualche mangaka. I negozi di elettronica erano la mia droga, tanta tecnologia così avanzata ad un prezzo tutto sommato contenuto che per portarmi via dovevano trascinarmi fuori a forza. Piccola curiosità: vista la grande massa di gente per le strade, non è possibile fumare all’aperto (!), ma solo in alcuni appositi locali al chiuso. Paese che vai, usanza che trovi…
Nota dolente delle città, però, è la viabilità. Non perché sia fatta male, ma perché siamo abituati alla guida a sinistra mentre loro guidano a destra. Come in Irlanda, ho rischiato un paio di volte di farmi investire perché guardavo dalla parte sbagliata. Questione di abitudine, certo, ma alle auto ibride che ti spuntano da ogni dove senza farsi sentire non ci si abitua di sicuro.
Una nota a parte la meritano per forza i bagni. I loro gabinetti vanno assolutamente provati, sono ipertecnologici pure quelli! C’è ogni tipo di confort, che non sto qui ad elencare, ma che non ho ancora capito se li amo o li odio. Fatto incomprensibile per noi: i bagni pubblici sono quasi più puliti di quelli di casa nostra.
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Si sa che le relazioni interpersonali dei giapponesi siano molto diverse dalle nostre, noi le definiremmo “fredde”, anche se in realtà non è così semplice. Siamo stati sempre ben accolti ovunque andassimo, sia perché sapere la lingua fa già il 99% del lavoro, sia perché portare rispetto per loro e la loro cultura (anzi, ne eravamo proprio curiosi) ci poneva sotto un’altra luce. Quando capivano che eravamo italiani cominciavano a farci domande, sia sull’Italia che sul nostro viaggio in Giappone. E alla fine ci salutavano sempre con qualche parola in italiano, pronunciata anche bene, devo essere sincero.
Per esempio, non dimenticherò mai quel anziano signore che ci ha aiutati a trovare la strada una volta che ci eravamo quasi persi. Si mise a disegnare le indicazioni sul nostro quaderno e a chiamare il posto dove eravamo diretti. E proprio lì, in quel posto dove eravamo diretti, riuscii a fare amicizia. E’ un giapponese che ripara moto italiane e a mia sorpresa parla molto bene l’italiano. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata e lui ha apprezzato molto il fatto che sono andato a trovarlo, perché è stato quasi un fuori programma. Ogni tanto ci sentiamo ancora sui social e appena possibile verrà in Italia, così potremo rivederci.
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Kyoto. La vecchia capitale l’ho apprezzata di più rispetto a Tokyo, ci sono meno stimoli tecnologici e distrazioni che ti bombardano ma c’è molta più storia. E’ proprio il motivo per cui ho deciso di vistare il Giappone, osservare ed apprendere il più possibile da una cultura diversa. Il quartiere Gion delle Geisha, il palazzo imperiale, il monte Inari con tutti i Torii, la foresta di bamboo di Arashiyama, i templi sparsi ovunque. Inoltre è stato a Kyoto che abbiamo mangiato il miglior cibo giapponese, un ottimo sushi che noi in Italia possiamo solo sognare. In genere per il cibo e bevande si spende poco, ma quella volta il conto è stato salato, anche se ne è valsa decisamente la pena.
Un trucco che ho imparato è mangiare proprio il cibo locale: si è sicuri che è buono e costa il giusto. Al contrario, se si vuole mangiare occidentale si rischia di spendere un capitale (nel migliore dei casi) o trovare cibo di scarsa qualità. Per fortuna a noi è andata bene, non abbiamo speso un patrimonio e la pizza si difendeva con onore.
Hiroshima. Su Hiroshima non c’è molto da dire, o meglio, ci sarebbe molto da dire ma non avrebbe senso. Semplicemente va visitata. Non sto qui a descrivere ciò che ho provato io, ognuno deve fare il proprio percorso ed arrivare alle proprie conclusioni. L’unica cosa che posso dire è che mi è rimasta nel cuore.
In conclusione, in Giappone ci ritornerei anche subito, ma ci starei più tempo. Un mese direi che è giusto, due settimane come ho fatto io è proprio il minimo sindacale. Non è una meta adatta a tutti, bisogna avere una mentalità aperta per accettare ed adeguarsi alle differenze culturali, e soprattutto ci vuole rispetto. Non è il luogo dove si può andare a fare i turisti spacconi.